Giosuè Carducci, Premio Nobel per la letteratura nel 1906, è stato uno dei poeti più influenti del XIX secolo.
La poetica del Carducci è caratterizzata dal classicismo, nel senso di amore verso il mondo antico, verso la patria e nel culto della libertà e dell’eroismo.
Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Giosuè Carducci che ne mettono in luce la visione del mondo, della vita e dell’arte. Eccole!
Poesie di Giosuè Carducci
San Martino
La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.
Pianto antico
L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,
Nel muto orto solingo
Rinverdí tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.
Nostalgia
Là in Maremma ove fiorio
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel cielo librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co’l tuon vo’ sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.
Sabato Santo
Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia
per la cerula effusa chiarità de l’aprile
cantano le campane con onde e volate di suoni
da la città su’ poggi lontanamente verdi!
Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
candido, radïante, Cristo risorge al cielo:
svolgesi da l’inverno il novello anno, e al suo fiore
già in presagio la messe già la vendemmia ride.
Ospite nova al mondo, son oggi vent’anni, Maria,
tu t’affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse
doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria:
ora e tu ne la gloria de l’età bella stai,
stai com’uno di questi arboscelli schietti d’aprile
che a l’aura dolce danno il bianco roseo fiore.
Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, l’augure suono
de le campane anc’oggi di primavera e pasqua!
cacci il verno ed il freddo, cacci l’odio tristo e l’accidia,
cacci tutte le forme de la discorde vita!
Mezzogiorno alpino
Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘I granito
Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.
Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L’acqua che tenue tra i sassi fluí.
Sole d’inverno
Nel solitario verno de l’anima
spunta la dolce imagine,
e tócche frangonsi tosto le nuvole
de la tristezza e sfumano.
Già di cerulea gioia rinnovasi
ogni pensiero: fremere
sentomi d’intima vita gli spiriti:
il gelo inerte fendesi.
Già de’ fantasimi dal mobil vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime
giú per l’ombra del tedio.
Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
echi d’amor superstiti
e con letizia d’acque che a’ margini
sonni di fiori svegliano.
Scendono, e in limpido fiume dilagano,
ove le rive e gli alberi
e i colli e il tremulo riso de l’aere
specchiasi vasto e placido.
Tu su la nubila cima de l’essere,
tu sali, o dolce imagine;
e sotto il candido raggio devolvere
miri il fiume de l’anima.
Ideale
Poi che un sereno vapor d’ambrosia
da la tua coppa diffuso avvolsemi,
o Ebe con passo di dea
trasvolata sorridendo via;
non più del tempo l’ombra o de l’algide
cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
o Ebe, l’ellenica vita
tranquilla ne le vene fluire.
E i ruinati giù pe ‘l declivio
de l’età mesta giorni risursero,
o Ebe, nel tuo dolce lume
agognanti di rinnovellare;
e i novelli anni da la caligine
volenterosi la fronte adergono,
o Ebe, al tuo raggio che sale
tremolando e roseo li saluta.
A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
stella, da l’alto. Tale ne i gotici
delùbri, tra candide e nere
cuspidi rapide salïenti
con doppia al cielo fila marmorea,
sta su l’estremo pinnacol placida
la dolce fanciulla di Jesse
tutta avvolta di faville d’oro.
Le ville e il verde piano d’argentei
fiumi rigato contempla aerea,
le messi ondeggianti ne’ campi,
le raggianti sopra
l’alpe nevi:
a lei d’intorno le nubi volano;
fuor de le nubi ride ella fulgida
a l’albe di maggio fiorenti,
a gli occasi di novembre mesti.
Di notte
Pur ne l’ombra de’ tuoi lati velami
Gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi
Crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami,
E con te sola il mio cuor solo stassi.
Di quai d’ozio promesse adempi e sbrami
Gl’irrequïeti miei spiriti lassi?
E qual doni potenza a i pensier grami
Onde a l’eterno o al nulla errando vassi?
O diva notte, io non so già che sia
Questo pensoso e presago diletto
Ove l’ire e i dolor l’anima oblia:
Ma posa io trovo in te, qual pargoletto
Che singhiozza e s’addorme de la pia
Ava abbrunata su l’antico petto.
In riva al mare
Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.
Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.
La ragion de le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde belve ed arene invan furenti:
Come su questa solitaria duna
L’ire tue negre e gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.
A Satana
A te, de l’essere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso;
Mentre ne’ calici
Il vin scintilla
Sí come l’anima
Ne la pupilla;
Mentre sorridono
La terra e il sole
E si ricambiano
D’amor parole,
E corre un fremito
D’imene arcano
Da’ monti e palpita
Fecondo il piano;
A te disfrenasi
Il verso ardito,
Te invoco, o Satana,
Re del convito.
Via l’aspersorio
Prete, e il tuo metro!
No, prete, Satana
Non torna in dietro!
Vedi: la ruggine
Rode a Michele
Il brando mistico,
Ed il fedele
Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.
Meteore pallide,
Pianeti spenti,
Piovono gli angeli
Da i firmamenti.
Ne la materia
Che mai non dorme,
Re de i fenomeni,
Re de le forme,
Sol vive Satana.
Ei tien l’impero
Nel lampo tremulo
D’un occhio nero,
O ver che languido
Sfugga e resista,
Od acre ed umido
Pròvochi, insista.
Brilla de’ grappoli
Nel lieto sangue,
Per cui la rapida
Gioia non langue,
Che la fuggevole
Vita ristora,
Che il dolor proroga
Che amor ne incora.
Tu spiri, o Satana,
Nel verso mio,
Se dal sen rompemi
Sfidando il dio
De’ rei pontefici,
De’ re crüenti:
E come fulmine
Scuoti le menti.
A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
E marmi vissero
E tele e carte,
Quando le ioniche
Aure serene
Beò la Venere
Anadiomene.
A te del Libano
Fremean le piante,
De l’alma Cipride
Risorto amante:
A te ferveano
Le danze e i cori,
A te i virginei
Candidi amori,
Tra le odorifere
Palme d’Idume,
Dove biancheggiano
Le ciprie spume.
Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l’agapi
Dal rito osceno
Con sacra fiaccola
I templi t’arse
E i segni argolici
A terra sparse?
Te accolse profugo
Tra gli dèi lari
La plebe memore
Ne i casolari.
Quindi un femineo
Sen palpitante
Empiendo, fervido
Nume ed amante,
La strega pallida
D’eterna cura
Volgi a soccorrere
L’egra natura.
Tu a l’occhio immobile
De l’alchimista,
Tu de l’indocile
Mago a la vista,
Del chiostro torpido
Oltre i cancelli,
Riveli i fulgidi
cieli novelli.
A la Tebaide
Te ne le cose
Fuggendo, il monaco
Triste s’ascose.
O dal tuo tramite
Alma divisa,
Benigno è Satana;
Ecco Eloisa.
In van ti maceri
Ne l’aspro sacco:
Il verso ei mormora
Di Maro e Flacco
Tra la davidica
Nenia ed il pianto;
E, forme delfiche,
A te da canto,
Rosee ne l’orrida
Compagnia nera,
Mena Licoride,
Mena Glicera.
Ma d’altre imagini
D’età più bella
Talor si popola
L’insonne cella.
Ei, da le pagine
Di Livio, ardenti
Tribuni, consoli,
Turbe frementi
Sveglia; e fantastico
D’italo orgoglio
Te spinge, o monaco,
Su ‘l Campidoglio
E voi, che il rabido
Rogo non strusse,
Voci fatidiche,
Wicleff ed Husse,
A l’aura il vigile
grido mandate:
S’innova il secolo
Piena è l’etade.
E già già tremano
Mitre e corone:
Dal chiostro brontola
La ribellione,
E pugna e prèdica
Sotto la stola
Di fra’ Girolamo
Savonarola.
Gittò la tonaca
Martin Lutero:
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero,
E splendi e folgora
Di fiamme cinto;
Materia, inalzati:
Satana ha vinto.
Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:
Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;
Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;
Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,
Come di turbine
L’alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.
Passa benefico
Di loco in loco
Su l’infrenabile
Carro del foco.
Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
De la ragione!
Sacri a te salgano
Gl’incensi e i vóti!
Hai vinto il Geova
De i sacerdoti.
Passa la nave mia
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
Ho in petto una ferita di dolore,
Tu ti diverti a farla sanguinare.
È, come il vento, perfido il tuo core,
E sempre qua e là presto a voltare.
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
Davanti alle terme di Caracalla
Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a più ardua sfida
levansi enormi.
‘Vecchi giganti’ par che insista irato
l’augure stormo ‘a che tentate il cielo?’
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.
Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
capo de i figli:
se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ‘l Campidoglio
e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l’Appia via.