Cesare Pavese è stato uno dei più importanti poeti, scrittori e intellettuali italiano del XX secolo. Nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nel 1908, visse fin dall’infanzia non pochi problemi familiari, segnati in particolare dalla morte in giovane età del padre, dei fratelli e dai problemi di salute della madre.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, divenne attivista del gruppo antifascista “Giustizia e Libertà” e proprio in quanto antifascista fu condannato a tre anni di confino. Nella sua vita visse diverse delusioni amorose che lo portarono alla depressione e alla morte prematura, nel 1950, dopo un’overdose di sonnifero.
Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Cesare Pavese che ci aiuteranno a ricordarne la sensibilità poetica e intellettuale. Eccole!
Poesie di Cesare Pavese
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Tu non sai le colline
Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
Ascolteremo nella calma stanca
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
Paternità
Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
I gatti lo sapranno
Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole −
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi piú non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.
Ti ho sempre soltanto veduta
Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.
Mattino
La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.
Tu sei per me una creatura triste
Tu sei per me una creatura triste,
un fiore labile di poesia,
che, nell’istante stesso che lo godo
e tento inebriarmene,
sento fuggire lontano
tanto lontano,
per la miseria dell’anima mia,
la mia miseria triste.
Quando ti stringo pazzamente al cuore
e ti suggo la bocca,
a lungo, senza posa,
sono triste, bambina,
perché sento il mio cuore tanto stanco
di amarti cosí male.
Tu mi dài la tua bocca
e insieme ci sforziamo di godere
il nostro amore che sarà mai lieto
perché l’anima in noi è troppo stanca
dei sogni già sognati.
Ma sono io sono io il vile,
e tu sei tanto in alto
che, quando penso a te,
non mi resta che struggermi d’amore
per quel poco di gioia che mi dài,
non so se per capriccio o per pietà.
La tua bellezza è una bellezza triste
quale avrei mai osato di sognare,
ma, come tu mi hai detto, è solo un sogno.
Quando ti parlo le cose piú dolci
e ti stringo al mio cuore
e tu non pensi a me,
hai ragione, bambina:
io sono triste triste e tanto vile.
Ecco, tu sei per me
null’altro che una fragile illusione
dai grandi occhi di sogno,
che per un’ora mi si stringe al cuore
e mi ricolma tutto
di cose dolci, piene di rimpianto.
Cosí mi accade quando stancamente
mi struggo a infondere nei versi lievi
un mio spasimo triste.
Un fiore labile di poesia,
nulla di piú, mio amore.
Ma tu non sai, bambina,
e mai saprai ciò che mi fa soffrire.
Continuerò, piccolo fiore biondo,
che hai già tanto sofferto nella vita,
a contemplarti il viso che ti piange
anche quando sorride
– oh la dolcezza triste del tuo viso!
non saprai mai, bambina –
continuerò a adorare accanto a te
le tue piccole membra melodiose
che han la dolcezza della primavera
e son tanto struggenti e profumate
che io quasi impazzisco
al pensiero che un altro le amerà
stringendole al suo corpo.
Continuerò a adorarti,
e a baciarti e a soffrire,
finché tu un giorno mi dirai che tutto
dovrà essere finito.
E allora tu non sarai piú lontana
e non mi sentirò piú stanco il cuore,
ma urlerò dal dolore
e ribacerò in sogno
e mi stringerò al petto
l’illusione svanita.
E scriverò per te,
per il tuo ricordo straziante
pochi versi dolenti
che tu non leggerai piú.
Ma a me staranno atroci
inchiodati nel cuore
per sempre.
L’amico che dorme
Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.
Marzo
Io sono Marzo che vengo col vento
col sole e l’acqua e nessuno contento;
vo’ pellegrino in digiuno e preghiera
cercando invano la Primavera.
Di grandi Santi m’adorno e mi glorio:
Tommaso il sette e poi il grande Gregorio;
con Benedetto la rondin tornata
saluta e canta la Santa Annunziata.
Primavera
Sarà un volto chiaro.
S’apriranno le strade
sui colli di pini
e di pietra…
I fiori spruzzati
di colore alle fontane
occhieggeranno come
donne divertite: Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
Anche la notte ti somiglia
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia –
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.
Semplicità
L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione.
ogni volta che morde in un pezzo di pane.
In prigione sognava le lepri che fuggono
sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
acqua fredda e morendo in un pezzo di pane.
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
con l’odore del vino nella calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
il colore fumoso, il sapore pesante.
Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
in prigione, ma adesso non sa più di pane
né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
di saperli già arati. Nella sala deserta
sottovoce, si prova a cantare. Rivede
lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
E compare la lepre e non hanno più freddo.
Donne appassionate
Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.
Sempre vieni dal mare
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
Estate
È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.
Mania di solitudine
Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.