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Poesie di Quasimodo: le 10 più belle e famose

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Ultimo aggiornamento: 20 Giugno 2023
Di: Frasi Mania
Poesie di Quasimodo

Premio Nobel per la letteratura nel 1959, Salvatore Quasimodo è stato uno dei più importanti poeti italiani del XX secolo.

Nella sua carriera letteraria vanta un ruolo di prim’ordine nell’ermetismo, ovvero quel movimento che vede la poesia come un mezzo per trasmettere delle emozioni, uno stato d’animo, libera da ogni finalità pratica e senza un ruolo educativo.

Ecco quindi la nostra selezione delle poesie di Quasimodo che ne definiscono lo stile e la profondità, ma anche l’impegno politico nel periodo tra la dittatura fascista e il secondo dopoguerra. Scoprile subito!

Poesie di Quasimodo

Ed è subito sera
Ognuno sta solo
sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

I soldati piangono di notte
Né la Croce né l’infanzia bastano,
il martello del Golgota, l’angelica
memoria a schiantare la guerra.
I soldati piangono di notte
prima di morire, sono forti, cadono
ai piedi di parole imparate
sotto le armi della vita.
Numeri amanti, soldati,
anonimi scrosci di lacrime.

E la tua veste è bianca
Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull’omero sinistro.
Mi supera la luce; trema,
e tocca le tue braccia nude. Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d’una vita
che sapeva di circo. Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti
come la prima volta.

Il mio paese è l’Italia
Più i giorni s’allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d’Israele,
il sangue tra i rifiuti, l’esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

Estate
Cicale, sorelle, nel sole
con voi mi nascondo
nel folto dei pioppi
e aspetto le stelle.

Fatta buio ed altezza
Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in ombra a raggi
e farti nuvola d’astri intorno al capo.
E me sospeso, a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell’aria accesa in arco.
Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi,
fatta buio ed altezza.

Uomo del mio tempo
Sei ancora quello della pietra e della fionda;
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-t’ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
“;Andiamo ai campi!”. E quell’eco fredda, tenace
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Specchio
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
e tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

Milano, agosto 1943
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio: E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Finita è la notte
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel silenzio,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra di pianura,
i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura
per restare solo a ricordati.
Come sei più lontana della luna
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli.

Lamento per il sud
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.

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